Pao: l’arte, la strada, i pinguini, Franca Rame e Dario Fo | Cultura, ATLANTE | Treccani, il portale del sapere

2023-03-23 14:48:50 By : Ms. Nancy Wang

Una galassia latte e miele, divertente ed esteticamente rassicurante, quella creata da Pao. La sua non è un’arte che raschia il fondo più duro dell’underground, ma un’espressione pop, o addirittura postpop. Nato e cresciuto a Milano, Pao non vanta un passato militante nelle frange adolescenziali armate di bomboletta spray che – a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta – si divertivano a marcare i vagoni della ramificata struttura metropolitana della città. Ha scelto di mettere la propria creatività sotto il naso di tutti molto più tardi, da giovane adulto. I suoi primi interventi da autodidatta, infatti, risalgono ai primissimi anni dei Duemila. Dopo aver lavorato come tecnico del suono in teatro con la compagnia di Franca Rame e Dario Fo, e dopo aver frequentato presso i laboratori del Teatro alla Scala un corso di costruttore di scenografie teatrali, senza neppure considerare la forma del writing selvaggio, Pao ha iniziato a dipingere in strada, reinterpretando gli elementi del contesto urbano in maniera più creativa e giocosa:

«Credo che ognuno scelga lo stile che gli è più congeniale, in base anche alle influenze che ha avuto. Mi sono sempre ispirato ai fumetti, ai videogiochi, ai cartoni animati, un po’ come tutta la mia generazione cresciuta a pane e televisione». 

Hai iniziato con un pinguino, diventato poi motivo ricorrente della tua produzione…

Sì. Un giorno, passeggiando per Milano, ho notato degli interventi astratti su alcuni paracarri. Mi è venuta così la voglia di farlo anche io, dipingendo però un pinguino, che era il soggetto che già da un po’ facevo su carta. Nonostante non avessi ancora avuto esperienze con lo spray, quell’intervento è stato immediatamente apprezzato da tutti. All’inizio è stato soltanto un gioco solitario. Frequentando i centri sociali di Milano, però, ho scoperto che oltre al writing e ai graffiti in strada si portavano linguaggi differenti. La cultura street iniziava a diffondersi, anche grazie ai primi siti Internet e ai primissimi eventi tematici. Ho capito che oltre a essere un divertimento, quell’espressione libera migliorava lo spazio cittadino, e quella dimensione ludica la trasformava in un palcoscenico riservato a mille avventure. La mia idea è stata da subito quella di portare meraviglia, stupore negli angoli cittadini morti – ingrigiti dal cemento e privi di estetica – per conferire loro un’allegra dimensione di bellezza. 

Pao, Pinguino, Giardino Oreste Del Buono, Museo del Fumetto, Milano, 2020 (foto per gentile concessione dell’artista)

I bambini si trovano molto a loro agio con le tue opere

I bambini apprezzano molto i miei lavori, è vero. Negli adulti, invece, si innescano riflessioni nuove. Quel che faccio è “coccoloso”, suscita tenerezza e simpatia. Non amo gli interventi vandalici che generano scontro, ma quelli che provano a dialogare con il contesto e si fanno apprezzare anche dai comuni passanti. Forse ho creato un corto circuito rispetto all’idea di vandalismo, realizzando interventi non autorizzati, ma ciononostante, graditi. Mi piace diffondere opere gentili. 

Opere gentili e spensierate, che indagano percorsi più complessi e inducono discorsi più profondi

Il discorso fra legale e illegale è ormai scemato. Dopo i primi dieci anni, la street art è stata accettata e ha assunto una funzione diversa. Spesso vediamo in giro opere che rischiano di essere superflue. Io preferisco aggiungere ai miei lavori sempre un livello di riflessione. Lo strato superficiale delle mie opere è molto morbido, è vero, ma poi a fondo c’è una profondità nascosta che mi permette di andare avanti. 

La pittura in strada ti poi ha portato a quella sulla tela. Hai dimostrato così che bisogna smetterla di pensare a una sola dimensione

Avevo già fatto delle tele, ma non erano significative. Per la partecipazione alla mostra Street Art, Sweet Art – ideata da Vittorio Sgarbi, allora assessore cittadino alla Cultura –  ho realizzato su tela Il velo di Maya, un’opera molto grande in cui il personaggio – quasi un autoritratto fumettoso – supera la superficie del quadro ed entra nel mondo. Oltrepassando la bidimensionalità, il soggetto insegna a varcare i limiti della realtà e ad entrare in una dimensione che va oltre la nostra visione. Ho iniziato così ad affiancare il discorso pittorico a quello stradale. E nel 2010 ho fatto la mia prima personale.

Pao, Il velo di Maya, 2007 (foto per gentile concessione dell’artista)

Mettere sotto il naso di tutti un’opera è una grossa responsabilità, non credi? 

L’arte ha più funzioni: può essere di critica, di denuncia ma anche di ispirazione. La street art si fa di nascosto per vedere quanto belle possano essere le cose. La leggerezza non è sciocchezza, ma è una profondità. Si interviene in uno spazio pubblico dove ci sono più persone e tante sensibilità, ed è opportuno lasciare delle opere che possano dare un messaggio positivo, incoraggiante, in una situazione sociale pesante e in un momento storico complesso. Certo, l’artista deve sempre rispettare lo spazio e creare opere che dialoghino con il contesto che le ospita. Sono convinto che l’arte possa aiutare a far sognare. Non certo fuggendo dalla realtà, ma il rifugio nell’onirico è importante. 

Perché soltanto sognando possiamo immaginare un mondo migliore e agire affinché il miglioramento avvenga. 

Pao, Il murales sulla parete esterna della TWT, Milano, 2015 (foto per gentile concessione dell’artista)

Franca Rame e Dario Fo, attraverso la leggerezza, hanno saputo colpire, e innescare riflessioni. Ti avranno insegnato tanto

Ero un ragazzo timido e pacato, se non li avessi incontrati probabilmente non avrei iniziato a dipingere per strada. Il coraggio di osare e agire l’ho trovato stando a stretto contatto con loro. Vedere due grandi che hanno raggiunto i massimi riconoscimenti operare senza mai darsi delle arie mi ha insegnamento tanto. Ho sfruttato questa occasione rubando con gli occhi, imparando e fare dei collegamenti fra il teatro e la pittura.

La rottura della quarta parete, la tecnica di cui Franca Rame e Dario Fo sono stati maestri assoluti. Interrompere lo svolgimento dello spettacolo per rivolgersi al pubblico ha creato un meccanismo di shock. Questo mi ha portato a scegliere degli angoli urbani più anonimi per valorizzarli e trasformarli in qualcosa che potesse interagire con il territorio e valorizzarlo. Quella di Franca e Dario è stata una scuola che mi ha acceso la scintilla.

Maestri assoluti anche del saper fare politica attraverso l’arte…

Be’ sì. Non c’è niente di più politicamente elevato dell’arte che interviene sul concreto. La street art è oggi soprattutto strumento di riqualificazione; un’azione che ha, indubbiamente, delle buone ricadute politiche.

Un’arte che soprattutto non si esaurisce, ma si rinvigorisce. Pao, com’è oggi il tuo processo creativo?

È un esercizio costante. Da qualche tempo sto cercando di alimentarlo disegnando molto. Lavoro molto sullo sketch-book: lo uso come palestra, come uno spazio libero in cui la creatività possa non avere limite. Con una matita e un foglio posso creare quello che voglio. Il talento può essere un importante punto di partenza, ma la passione e l’impegno premiano molto di più.

Cos’è per te la creatività?  

La creazione di connessioni nuove fra idee e pensieri, evitando di limitarsi da soli con blocchi mentali. Dovremmo reimparare dai bambini a lasciar correre la fantasia, perché tutte le idee possono essere buone. Alla fase libera e creativa segue l’analisi razionale. Essere capaci di selezionare le idee migliori e scegliere su quale concentrarsi, oggi più che mai, è di fondamentale importanza. 

Pao, Spongebob, Roma, 2012 (foto per gentile concessione dell’artista)

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