L'arresto dei trapper Baby Gang e Simba la Rue nel racconto della settimana - Tag43

2023-03-23 15:00:15 By : Mr. Gary Chen

«Sono cresciuti tra comunità e carcere, con loro lo Stato ha fallito!», ha tuonato commentando l’arresto dei trapper Simba la Rue e Baby Gang il cappellano del carcere minorile Beccaria. E mi è tornata in mente l’intervista che feci in radio ad Albinati dopo l’uscita di La scuola cattolica. Il racconto della settimana.

C’è un romanzo di Edoardo Albinati, uscito qualche tempo fa, intitolato La scuola cattolica, che racconta la Roma borghese degli Anni 70 e l’educazione che ricevevano i figli maschi delle cosiddette famiglie bene. Il libro ebbe un certo successo, vinse il Premio Strega e diventò, successivamente, un film di cui si parlò molto anche per la censura a cui fu sottoposto. La scuola del titolo è il San Leone Magno, istituto privato a indirizzo religioso nel quartiere Trieste che l’autore frequentò insieme ad alcuni ragazzi (che ora sono o morti o in galera), balzati ai disonori delle cronache per essere stati gli autori di uno dei più efferati omicidi dell’epoca, il massacro del Circeo.

È il 29 settembre del 1975, due ragazze accettano l’invito a partecipare a una festa in una villa al mare di un loro amico. Il giorno dopo una delle due verrà ritrovata morta, chiusa nel cofano di un auto parcheggiata in una strada di Roma insieme all’amica, miracolosamente sopravvissuta. Si parlerà di sevizie, stupri e torture di una violenza da far accapponare la pelle. I tre assassini erano Andrea Ghira (22 anni), figlio di un imprenditore edile; Angelo Izzo (20 anni) studente di medicina; Gianni Guido (19 anni) studente di architettura. Tutti e tre vicini ad ambienti neofascisti. Nel 2015, Albinati decide così di scrivere un romanzo che in qualche modo possa “contenere” quel delitto. Contenere nel senso di dare una cornice temporale, spaziale, morale all’ambiente in cui quell’evento maturò. Intervistai in radio Albinati all’epoca e ricordo che una delle cose che più mi impressionò fu quando mi disse che i tre sì, erano sicuramente disturbati mentalmente, ma che considerarli semplicemente pazzi e deviati sarebbe stato un modo troppo generoso per autoassolversi: «Non credo che tutti noi potevamo essere coinvolti, ma ci eravamo vicini, molto. La violenza politica degli anni seguenti non risparmiò quasi nessuno. Lo stesso quartiere Trieste verrà seminato di morti ammazzati e, tra quei morti, potevo esserci io come potevo essere stato io a sparare». Ricordo che ragionai parecchio su quella risposta e feci un parallelismo sulla mia di adolescenza, sull’educazione che ricevetti dalla mia famiglia e su come reagii quando tutto andò in pezzi.

Settimana scorsa ho finalmente visto il film tratto dal romanzo in questione e contemporaneamente, sfogliando i quotidiani sull’iPad, leggendo la notizia dell’arresto dei giovani rapperini, o trapper che dir si voglia, quei pensieri mi sono tornati in mente. “La gang dei rapper a mano armata: spariamo alla gente”, ha titolato Rep in prima pagina, riassumendo così due storie, fatte di risse e vendette, che hanno visto protagonisti Baby Gang, Simba La Rue e Baby Touchè, un altro trapper di una banda rivale. «Sai cosa mi faceva ridere?», scrive Ilaria Carra sulle pagine del quotidiano, riportando stralci delle conversazioni intercettate tra i vari componenti della banda, che Speedy, (soprannome di Simba La Rue), «picchiava il negro con la stampelle», commentando la rissa, finita a pistolettate, con dei ragazzi senegalesi all’alba di una mattina del luglio scorso in Corso Como. Perché è proprio Simba La Rue, aka Speedy, il trait d’union, che collega un’altra operazione parallela fatta di sequestri, accoltellamenti e pornostar, che ha portato altri arresti collegati con la precedente. «Sono cresciuti tra comunità e carcere, con loro lo Stato ha fallito!», ha tuonato, commentando la notizia, il cappellano del carcere minorile Beccaria. Ed è proprio leggendo queste parole che mi è tornata in mente l’intervista ad Albinati, riflettendo su quanto l’humus all’interno del quale vivi riesca, volente o nolente, inevitabilmente a condizionare la tua esistenza e a quanto questo incida nell’orientare l’equilibrio tra il bene e il male che c’è in ognuno di noi. Noi da ragazzi non abbiamo mai stuprato né ucciso nessuno e non ci siamo mai sparati addosso per strada. Non sprangavamo e non facevamo espropri proletari. Il nostro disagio e l’odio verso il prossimo lo esprimevamo semplicemente facendo atti di puro vandalismo che spesso si riduceva a un teppismo stupido, fine a se stesso, che ci portava a distruggere tutto quello che ci capitava sotto tiro. Come successe per esempio ad alcuni di noi quella sera a casa di Roberto Vecchioni.

La notizia finì addirittura in prima pagina sul Corriere della Sera, perché i giovani coinvolti erano tutti studenti dei migliori licei milanesi, oltre che annoiati rampolli di famiglie della ricca borghesia. Li chiamarono “spaccafeste”

15 marzo 1997. «Carolina festeggia gli anni questa sera, vieni?», mi domanda Albertone, mentre stiamo caricando un Alverman di caramello in piazzetta dietro allo Stage di via Manzoni, «ci saranno praticamente tutti». Lo guardo ma non riesco a rispondergli, mi tremano ancora le mani dall’agitazione. Devo calmarmi. Devo assolutamente fumare. L’adrenalina non mi è ancora scesa perché più o meno mezz’ora fa, uscendo dal privè del locale, ho urtato un tizio versandogli addosso la caipiroska alla fragola che teneva in mano. Io ero troppo sconvolto per accorgermi che il tizio ha iniziato a urlarmi contro la qualunque ma Albertone, che era subito dietro di me, se ne è reso conto eccome. Al solito è stato tutto troppo veloce per ricordare i dettagli, ma nella testa mi risuona ancora l’eco di frammenti di suoni e immagini: l’urlo acuto di una ragazza, Albertone che si muove come una furia, un altro tipo per terra steso sulle scale del privè, un portacenere che sbatte sulla faccia di qualcuno, il tizio della caipiroska piegato in due sanguinante con le mani sul volto, gli sguardi impauriti di un gruppo di babbi di minchia, illuminati dalla luce intermittente della strobo mentre corriamo via. «Quindi che fai? Vieni o no?», ha insistito ancora Albertone, dopo l’appizzo e il riabbocco. «No», gli ho riposto, sputando fuori il fumo dalla bocca, «stasera porto Nicole a La Gare». «Ma tanto non te la darà mai quella, rassegnati! È tempo buttato», ha concluso lui, già pronto con l’impasto in mano per caricare un altro lotto.

E in effetti non ha avuto tutti i torti, perché Nicole in effetti, sbarba di rara bellezza, non solo non me l’ha mai data ma oltretutto è anche stata una di quelle che mi ha tirato uno dei più grossi due di picche di tutta la mia vita. Tanto grosso che lo ricordo perfettamente ancora. Se ci penso bene però, in fondo, Nicole devo ringraziarla, perché è solo grazie a lei che quella sera non mi sono presentato a casa Vecchioni e non sono finito anch’io, pochi giorni dopo, nella maxi retata che coinvolse oltre 120 ragazzi, tutti dai 15 ai 17 anni, denunciati al Tribunale dei Minori di Milano per furto aggravato e danneggiamento. La notizia finì addirittura in prima pagina sul Corriere della Sera, perché i giovani coinvolti erano tutti studenti dei migliori licei milanesi, oltre che annoiati rampolli di famiglie della ricca borghesia. Tra loro spiccavano cognomi di industriali, di grossi commercianti, di personaggi della politica, di professionisti e di uomini d’affari. Li chiamarono “spaccafeste” e la razzia a casa Vecchioni fu solo uno dei motivi per cui vennero denunciati. Oltre a rubare quello che si trovava in giro più che altro l’obiettivo di chi si imbucava a feste come quella era di spaccare tutto. Quella sera per esempio furono rotte delle preziose statue di ceramica, furono devastate delle piante, tirata giù una vetrata del condominio e furono imbrattati con bombolette spray e pennarelli i muri della portineria, riempita di cazzi e frasi oscene. Si parlò di 35 milioni di lire di danni: sparirono televisori, giradischi, tappeti, videoregistratori e furono bruciate le gambe di un tavolo del Seicento.

Ricordo che appeso a un palo c’era il cartello “Proprietà in vendita”. E se mi sforzo ricordo anche l’espressione di quel 17enne inquieto intento a ricacciare indietro i ricordi. Ricordi che appartenevano già a un altro Andrea che non aveva più niente a che vedere con me

Nello stesso periodo ricordo che andai per Pasqua qualche giorno a Rapallo e che Gualtiero mi venne a prendere in stazione con una vecchia Citroën Mehari che probabilmente guidava da prima che io nascessi. «Signorino Andrea, lo sa quanto siete importanti per me lei e la sua famiglia?». «C’è ancora tutto?», gli chiedo. «Signorino Andrea, la tenuta c’è ancora. Come sa, le banche se la sono presa ma non hanno ancora trovato un acquirente, e io spero sempre che possiate ricomprarla voi». «Cos’è che manca allora?», chiedo a Gualtiero, accendendomi una sigaretta che mi provoca immediatamente un accenno di nausea. «Lo vedrà lei stesso tra qualche minuto. La casa è per così dire, un po’ spoglia», risponde con una lacrima che gli si addensa sul bordo dell’occhio. Il vecchio custode tuttofare della nostra casa sulle hills di Rapallo sembra sul punto di sciogliersi come fosse neve al sole di primavera. Rimanemmo in silenzio per tutto il resto del tragitto e poi entrammo nel lungo viale polveroso che portava alla villa. Ricordo che appeso a un palo c’era il cartello “Proprietà in vendita”. E se mi sforzo ricordo anche l’espressione di quel 17enne inquieto con la polo Ralph Lauren verde bottiglia ed il maglioncino con lo scollo a V blu, intento a ricacciare indietro i ricordi. Ricordi che appartenevano già a un altro Andrea che non aveva più niente a che vedere con me.

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