La cultura hip pop ha saldato le persone unendole in crew – con la rima in testa e la bomboletta in mano – attraverso la musica, i suoni, i balli e i graffiti. Nello studio palermitano di Rosk si diffondono ancora senza alcun fastidio le note di Cani sciolti dei Sangue misto, iconica band della frangia italiana del movimento artistico e culturale, originatosi nel quartiere newyorkese del Bronx. Intorno ci sono le opere che daranno forma a un progetto di imminente presentazione, e le immagini degli interventi urbani che hanno permesso all’artista siciliano – al secolo Giulio Gebbia – di essere annoverato fra gli esponenti italiani dell’iperrealismo urbano.
«Il mio percorso da graffitaro è iniziato con l’inevitabile passaggio dall’istituto d’arte, dove si fa poco, è vero, ma quel poco può essere molto importante».
Si potrebbero trascorrere giornate intere a disquisire su quanto la cultura hip pop abbia modellato e stimolato gli adolescenti degli anni Novanta. Ma la curiosità di sapere quanta consistenza abbia avuto il movimento in Sicilia prende il sopravvento…
In Sicilia era tutto più ridimensionato, ovviamente. Non c’era Internet, e tutto arrivava in ritardo. Quella lentezza, però, non mi ha mai scoraggiato. Guardavo in televisione i video di Eminem e disegnavo. La mia passione per il disegno non si esauriva; anzi, con i pochi strumenti che riuscivo a recuperare – le riviste di settore, per esempio – sono riuscito perfino a irrobustirla.
Quando il fulmine a ciel sereno di svolta e maturazione?
Durante un viaggio di istruzione in Spagna, con visita a una fiera d’arte affollata da writer iperrealisti. In quel posto fantastico ho capito per la prima volta che con gli spray era possibile realizzare tanto altro. Tornato a casa, con la determinazione di importare quanto visto, mi sono rifugiato nel mio paese d’origine – Serradifalco, in provincia di Caltanissetta – e ho iniziato a dipingere per affinare la tecnica. La sana perversione che nutro nei confronti del disegno mi ha successivamente spinto verso l’Accademia delle belle arti di Palermo, percorso di studi che mi ha permesso di entrare in contatto con sempre più persone accomunate dalla mia stessa passione.
La tua è una storia simile a quella di molti giovani del Sud Italia: si parte, si impara, e si porta a casa. Tu sei stato fra coloro che hanno introdotto l’iperrealismo nel circuito dell’arte urbana
Se sei una spugna assorbi, se sei una pietra ti scivola tutto addosso. Ho voluto assorbire per alimentare il desiderio di formarmi, di conoscere, di andare avanti. Non mi considero arrivato, ma in continua crescita. Ho voluto fin da subito contribuire a introdurre un nuovo linguaggio, e sulla base di ciò ho organizzato nel 2009 un grandissimo evento che ha avuto il coinvolgimento attivo di molti esponenti della creatività urbana siciliana. Certo, bisogna dire che all’epoca i tempi erano ancora poco maturi, e la street art veniva considerata un atto vandalico. Oggi, per fortuna, la situazione è migliorata. La street art crea perfino turismo…
Rosk, Close the gap, open your future, Milano (foto per gentile concessione dell’artista)
A proposito di street art tour, quella dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – realizzata con Mirko Loste, con il quale hai molto collaborato – è un’opera emblematica, monumentale. Chiunque passi da Palermo non si sottrae dal sostarvi davanti per fotografarla e immetterla nel proprio spazio social
L’opera è stata inserita da Lonely Planet fra i cinque punti più interessanti da visitare a Palermo. Mirko e io l’abbiamo realizzata in occasione del venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, per ribadire l’immenso valore delle due figure rappresentate. La street art deve la sua riqualificazione alle condivisioni social delle opere. Il merito è proprio di coloro che si fermano a fotografarle. A volte, però, noi artisti veniamo usati per nascondere la polvere sotto il tappeto.
Agitare la bandiera della street art sulle operazioni di riqualificazione urbana è sempre più facile. In realtà, però, spesso è soltanto un decoro fine a se stesso, perché i quartieri dopo gli interventi artistici vengono abbandonati. La nostra è un’arte effimera, il tempo prima o poi la porterà via, così come tutte le cose che abitano all’esterno. Occorrerebbe lavorare realmente al recupero delle periferie perché non è soltanto affrescando una parete che si risolvono i problemi.
A Napoli, nel distretto della creatività urbana di Ponticelli, è presente un’opera firmata Rosk e Loste. Il maxi murales rappresenta due ragazzini felici durante un’azione di gioco, con il pallone sospeso a mezz’aria, e incarna il senso di quel che hai appena detto
Be’, sì. A Napoli, nel quartiere Ponticelli, è stato fatto un percorso di autentica riqualificazione del contesto urbano. Oltre alla nostra, ci sono altre opere, e per i ragazzi della zona è stata fatta una bonifica a tutti gli effetti. Operazioni simili non salvano la vita delle persone; ma i ragazzi, almeno, non cresceranno nel degrado, ma coccolati dal contesto in cui vivono.
L’arte è sempre stata impegno civile. Nel corso della storia, recente e contemporanea, ci ha aiutato a scegliere con cognizione di causa, a riflettere e ad approfondire. I tuoi interventi che funzione sociale hanno?
Le mie immagini non hanno la pretesa di educare. Mi piace rappresentare soprattutto icone che hanno vissuto i luoghi in cui dipingo. Il loro obiettivo è quello trasmettere un messaggio quanto più positivo possibile.
È il caso del Paolo Villaggio che a Genova osserva il Ponte Morandi?
Mirko e io abbiamo scelto di realizzarlo proprio in quel posto, affinché osservasse con indignazione e tristezza le macerie della tragedia. Villaggio era un genovese scomodo, poteva piacere o essere detestato; il suo sguardo lì suscita dei punti di domanda e di riflessione. È questo il motivo per cui ho scelto di realizzare opere iperrealiste.
Seppur effimera, l’arte urbana si diverte a picchiare duro sulla perdita di umanità
L’arte non può non sensibilizzare. È il caso di Bakhita, a Palermo.
L’opera raffigura una giovane donna pakistana. La particolarità sta nell’aureola posta dietro il suo capo. Dettaglio che porta l’osservatore a riflettere sul valore dell’accoglienza. Palermo ospita al suo interno una vasta comunità pakistana. Qui si respira il calore tipico dell’accoglienza: un’apertura verso tutti. La cultura hip pop è molto incline al pensiero siculo, con la sua urgenza di azionare le sinapsi affinché si elaborino pensieri e idee migliorativi.
Secondo la teoria dell’ostrica di Giovanni Verga, è necessario rimanere legati al proprio scoglio. Verga è rimasto ancorato alle proprie radici per creare una letteratura universale. Chi impara a camminare sull’isola, può correre nel resto del mondo?
Credo sia più coraggioso rimanere che andare via. La Sicilia è terreno fertile. Offre tanto, ma noi prendiamo poco. I suoi limiti e le sue problematiche, a mio avviso, la fanno diventare una terra ancora più magica. Il suo potere e le sue energie difficilmente si trovano altrove. Il mondo va veloce, è vero, e qui in Sicilia il processo di cambiamento è nettamente più lento. Ma l’arte dell’arrangiarsi è da sempre la linfa vitale per ogni creativo.
Qual è significato del nome con cui hai scelto di fregiare la tua arte?
Rosk? Non dire assolutamente nulla. Cercavo un nome per firmare le mie opere e l’ho trovato per caso. Mi piacevano la sua fonetica, le lettere che lo compongono. Niente di più.
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